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BARTOLINI

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Arte e cibo, coraggio e strategia, realismo e ottimismo: un anno dopo le “tre stelle”, Enrico Bartolini ripercorre l’anno più incredibile della sua vita. Ma nulla può scomporlo: «Testa bassa e zero distrazioni»

 

Cibo, arte, Milano. In una parola: Enrico Bartolini. E non è difficile comprenderne le ragioni: il suo ristorante, ospitato nella culla del MUDEC in zona Tortona, è già a tutti gli effetti baluardo di ripartenza per due mondi diversi – cibo e arte, appunto -, in ogni loro accezione. Perché? Perché chi ha provato la sua cucina avrà spesso pensato di trovarsi in una pinacoteca e chi, oggi, visita il Museo delle Culture è improbabile che non abbia quantomeno la curiosità di conoscere da vicino l’unica cucina di un tristellato a Milano. Ma, mai come in questo caso, oltre le tre stelle c’è di più. Anche perché la depressione finanziaria post Covid non fa sconti a nessuno e, per mantenere quel cielo “trapunto”, c’è bisogno di «ogni sforzo possibile».
Come sta, chef?
«È una domanda affascinante, perché nella società contemporanea, quando uno chiede all’altro come sta, si aspetta di poterlo compatire oppure di misurarsi ed essere rassicurato dal fatto che qualcuno stia peggio. Però non voglio fare l’esperto di psicologia, quindi racconto semplicemente come sto».
E quindi come si sente?
«Non lo so bene in questo momento, ma so come ho vissuto il periodo del lockdown. Per fortuna quest’estate l’Italia è stata invasa da chi vive in città: un toccasana per il business delle attività stagionali, che potevano veramente trovarsi in ginocchio. Ho passato un po’ di tempo a chiacchierare con i colleghi per tastare più umori possibili e ho potuto constatare che città come Milano, Firenze e Roma stanno reagendo con forza. In maniera diversa, ma reagiscono. Milano è più rapida, ma è anche abituata a volumi decisamente diversi».
Serve ottimismo, insomma.
«Quello sempre. Ma serve soprattutto recuperare i volumi che transitano nella nostra città attraverso gli aeroporti, le fiere, i grandi hotel».
I ristoranti.
«Senza dubbio. Siamo felici di aver potuto riprendere in mano le nostre cose. Il ristorante sta funzionando, non come vorrei, eppure tutti i giorni c’è un’eccellente richiesta di tavoli. Ma la parte che ci tocca di più nella gastronomia è la presenza delle risorse umane».
Ed è preoccupato?
«In tanti hanno subito un trauma inedito: per il nostro comparto stare a casa per tre mesi, ad eccezione di poche attività legate a delivery o take away, era assolutamente impronosticabile. Io stesso, come cuoco, non ho mai avuto così tanti giorni a disposizione lontano dal ristorante. Quindi ho vissuto, mi sono impegnato, ho lavorato da casa per quanto potevo, ma il lavoro quotidiano del pranzo e della cena mi è mancato. Da un lato è una cosa straordinaria poter avere del tempo per pensare, studiare, riposare, o relazionarsi col mondo; dall’altro è lo sconvolgimento di un ritmo metabolico, con il fisico e la mente che probabilmente iniziano ad apprezzare altre cose».
Le è pesato avere così tanto tempo per pensare?
«No, basta capire come gestire la percezione della fatica. Se uno si sente impotente o disgraziato perché ci ha rimesso dei soldi, non può comunque cambiare lo stato delle cose. La cosa bella è che io non mi sento avido e ho fatto questo mestiere anche con pochissime risorse a disposizione. L’importante era riuscire a rimettersi sui binari giusti, lavorando a testa bassa. Ed è quello che stiamo facendo».
E con il lavoro di squadra come la mettiamo?
«È una questione anche psicologica: non è che bisogna per forza stare a meno di un metro di distanza. Ma, se manca l’aggregazione mentale, manca la complicità per fare le cose. La complicità permette di performare pranzo e cena al massimo livello. Se c’è un difetto viene risolto, curato e si sente meno la fatica, come nelle coppie. Se non c’è la comprensione della parte emotiva, è come se un cuoco non avesse il palato in sintonia con quello dei propri collaboratori».
Torniamo al suo inguaribile ottimismo: avverte il rischio che venga mal interpretato?
«Mi è successo di pensarci in un’intervista recente: non avevamo ancora riaperto, ma volevo comunicare per bene il mio punto di vista anche per incentivare chi avrebbe letto a ricevere lo stimolo giusto per ripartire. Come quando metti la farina, l’acqua e un po’ di zucchero sul lievito di birra: gonfia, ma ha bisogno di uno stimolo, altrimenti resta solo un grande potenziale inespresso. Ebbene, sui social ho letto commenti di una cattiveria pazzesca: secondo alcuni, uno chef stellato non può minimamente immaginare che cosa sia il dolore della gente “normale”. Io mi reputo una persona “normale” che ha un’attività commerciale e che deve stare alla larga il più possibile da ogni tipo di pressione finanziaria, altrimenti non ha la lucidità per lavorare bene e per relazionarsi al meglio con il team. Ancora meno con i clienti».
Il Governo come crede stia appoggiando il comparto?
«Credo che gli strumenti a disposizione sulla carta vadano messi in atto. E con una certa rapidità. Altrimenti mancheranno sempre più le strategie, gli investimenti e il coraggio di fare impresa. Le ricordo che, dietro il nostro lavoro, c’è tutta la filiera. Una filiera enorme».
Che il 6 novembre le permetterà di festeggiare il primo anno da tristellato.
«È la celebrazione che, secondo me, se chi fa il cuoco non la desidera è perché probabilmente vive in un contesto in cui non si sente minimamente spendibile sulle pagine della guida. Credo sia un desiderio che tutti noi abbiamo».
Ha pianto?
«Non in pubblico».
Le piacerebbe diventare un simbolo ancor più attivo per questa città?
«Dopo aver percepito l’entusiasmo della gente al ritorno della terza stella a Milano, non credo di avere il dovere di fare altro. Nel ruolo che ho oggi, per la città, mantenere questo riconoscimento è già un orgoglio straordinario. Per farlo devo investire tanto e in maniera responsabile, conducendo una vita professionale che rappresenta questo ristorante e tutto il team di lavoro».
Il ruolo “alla Cracco” non la ingolosisce, insomma.
«È per lui se sono venuto a Milano per la prima volta».
Farebbe anche lei da testimonial per un marchio di patatine?
«L’ho sentito raccontato in maniera popolare, a volte anche con disprezzo, per questa cosa. Un po’ come una forma di invidia. Io in quella pubblicità ho visto per lui un’opportunità: nessuno si è mai soffermato sul piatto che ha creato su quella patatina. Io, siccome sono un collega curioso e mi piace mangiare quello che fanno gli altri, ho visto che sulla patatina c’era una preparazione fatta da lui. Quindi lui ha fatto un piatto dei suoi, ha messo la sua faccia su quel piatto, che non era di porcellana ma era una chips di patata».
Mi sembra di intuire, nel suo glissare, che non ama le luci della ribalta.
«Diciamo che in questa città ho avuto l’opportunità di essere coraggioso e di investire in un edificio che è abitato dal Museo delle Culture, condotto da una multinazionale con cui il dialogo è disciplinato al punto che è poco “umano”, anche se fatto da persone che ci ascoltano e lavorano in maniera assolutamente cordiale. Il mio posto è qui».
Che sensazioni ha avuto il 2 giugno, alla riapertura?
«Un po’ di imbarazzo, le persone entravano cercando di rispettare il protocollo. Noi ci siamo allenati prima che arrivassero gli ospiti per metterli il più possibile a loro agio. E quindi accogliere le persone e non dar loro la mano, prendere la temperatura, indossare la mascherina. Un trauma, possiamo dirlo. Adesso è la normalità. Ci siamo abituati in modo sereno: avevamo il terrore che l’ambiente fosse gelido, con la gente che avesse paura di contagiarsi al ristorante o di non godersi la serata a causa dei protocolli. È passato subito».
Oggi ha cucinato per noi due piatti ispirati a Milano.
«Ho un forte attaccamento ai piatti tradizionali per il gusto che hanno. Mi piace mangiare le cose che hanno anche un dito di olio in più. Non che sia un fan della nutrizione troppo golosa, perché mi da fastidio non avere la digeribilità giusta, però sono fan di quel tipo di sapori. E cerchiamo in cucina di raccontare in maniera contemporanea grandi ingredienti, grande tecnica e un legame con quello che ci circonda».
Il primo lo ha definito “Risotto Arlecchino remake”.
«Non volevamo rifare il risotto alla milanese, ma ne è fortemente ispirato. Quindi abbiamo preso le verdure di stagione che sono la vita del risotto e lo abbiamo chiamato “Arlecchino”, enfatizzando questo divertimento di colori. Arlecchino era il diavolo del carnevale: questo ci permette di raccontare che in mezzo al piatto c’è un diavolo che si permette di fare un dispetto allo zafferano, togliendolo e sostituendolo con il curry. Una cosa molto ruffiana».
E l’ossobuco?
«Si fa fatica ad avere con costanza l’ossobuco sulla carne di vitello italiana di alto livello perché nel nostro Paese non c’è una forte cultura di allevamento del vitello quando è ancora rosa. E non volevo usare una carne olandese, tedesca, seppur buona. Ma abbiamo trovato un grande midollo: la parte centrale dello stinco viene seghettata e si usa quel midollo per accompagnare il piatto, che viene cotto come si cuoce l’ossobuco ma senza la carne intorno. Si fa il sapore della gremolata e si cuoce nel forno. Il curry, nonostante non sia cotto nel riso, riesce ad elevare la piacevolezza del piatto perché non va in contrasto, ma si armonizza con le altre preparazioni».
E poi c’è il mitico aspic di manzo, in chiave contemporanea.
«Nel periodo natalizio, non avevo nella mia cultura il paté o la gelatina. Poi alla scuola alberghiera ho cominciato a fare queste preparazioni: sono ricette antiche dove la gelatina si fa non aggiungendo il gelificante ma con le diverse cotture. Non mi piaceva la consistenza di quello tradizionale conservato nelle vetrine delle belle gastronomie e quindi abbiamo ricostruito il manzo, anziché il paté di vitello, per dargli un tono diverso. Visto che sono un fan della battuta olio e sale, non volevo cadere nel banale, però sentivo il desiderio di affrontare questo tema. Abbiamo preso un sacco di agrumi di stagione che ci sono tra la Liguria, la Calabria, la Sicilia e la Campania e li abbiamo usati per condire la carne con una marinatura gentile. C’è un gelato fatto con la senape, il caviale, delle erbette fresche, olive, sedano. La gelatina è veramente fine e trasparente, ma dà la potenza del doppio ristretto di manzo della nonna, che si scioglie mentre si mangia».
Chef, adesso è il momento giusto per?
«Lavorare a testa bassa dando il massimo. E con zero distrazioni. Ogni distrazione, adesso, fa aumentare l’insicurezza».

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